Parto dalla riflessione di un collega che ieri su un quotidiano nazionale scriveva: "Un esonero è soprattutto il segno ineluttabile dell'incapacità dei dirigenti di scegliere. Più frequenti sono i cambi, più scarsa è la dirigenza di quella società". Ebbene a oggi, fra A e B (42 squadre in tutto), sono ben 21 (50% esatto) i club che hanno cambiato allenatore. Dodici in B e nove in A. Senza contare Donadoni e Pioli che sono stati messi alla porta da Cagliari e Palermo ancor prima che iniziasse il campionato e che, fortuna loro, sono potuti rientrare in gioco successivamente. Fra i cadetti c'è perfino chi si è esibito in un triplo valzer. Ovvero l'Empoli, passato da Aglietti a Carboni con l'intermezzo di Pillon (dato anomalo per un presidente come Fabrizio Corsi). E il Grosseto, che da Ugolotti è approdato Viviani, bruciando in un amen la seconda opzione rappresentata da Giuseppe Giannini. Ma qui la sorpresa è tutto sommato relativa, perché l'irrequieto Camilli (novello Zamparini) ci ha abituati a questo ed altro.
Ventitrè tecnici rispediti a casa quando siamo a mala pena al giro di boa della stagione. E con loro, si badi bene, congedato quasi sempre anche il fidato staff personale puntualmente al seguito (vice, preparatore atletico, preparatore dei portieri, capo osservatore e via discorrendo). Alla faccia della crisi, di tante casse societarie tremebonde (solo in A gli esoneri costano circa 12 milioni di euro) e soprattutto di quell'idea di progetto che ogni estate viene sbandierata quale monotono mantra da presidenti e dirigenti.
Dirigenti piuttosto scarsi quanto a capacità di scelta e di programmazione, come sottolineava il collega, se mezzo campionato ha già cambiato faccia in panchina. E se a gennaio il mercato rivolterà molte squadre da cima a fondo. Qualcuno che si prenda la responsabilità di certe scelte? Macchè. E avanti con il solito alibi: "Pensiamo che questa squadra valga una classifica migliore… Serviva una scossa… Non c'era armonia nello spogliatoio…". Chi sbaglia, di solito, paga. Gli allenatori lo sanno. Peccato però che ai dirigenti (diesse, digì, ditì...) non capiti quasi mai.
Gianluca Grassi
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